Elena Faleschini de Corato - Scultrice
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IN FONDO SONO TUTTE IMPRONTE Indipendentemente dalla tecnica, tanto che la forma venga scolpita nella pietra, sia che si ritrovi plasmata nell’argilla e a volte riversata in bronzo dal sacrificio canalare della cera fusa, l’immagine di cui Elena si fa tramite comunica sempre una sorta di naturale necessità della propria espressione; come se il processo di definizione dei volumi fosse costantemente innescato da una pressione endogena, da cui si determina la spinta che poi l’artista disciplina nella superficie dell’involucro. E, in fondo, sono tutte delle figure. Alcune (come Caino, o Liberazione) urlano la propria individualità, compressa o lacerata, attraverso i solchi della terracotta: calanchi tra cui esplodono masse muscolari e gestualità straziate, di chi sembra volersi strappare di dosso una pelle che deve invece aver abbandonato da tempo quei corpi scorticati. Altre ci parlano secondo schemi non narrativi, ma non sono meno legate delle prime a quel calco tridimensionale dei nostri rivolgimenti interiori che ci portiamo appresso – a volte persino con una qualche grazia – e solitamente definiamo con termini quali corpo, fisionomia. È questa la misura comunque evocata dalla geologia della materia che ci si squaderna sotto gli occhi e svela, nell’incavo di cucitura delle proprie pagine, la matrice femminina della nostra dimensione vivente. Anche gli altri elementi della natura (Aria; Acqua e Fuoco) sembrano inevitabilmente proiettati a far trasparire nei loro spessori di astratta rarefazione un sentimento di corporeità: a tralucere è pur sempre un archetipo di forma che si muove “[…] libera, come talvolta nella coscienza una parola vaga libera da ciò cui è connessa e diventa qualcos’altro, non mero rumore […], ma un’entità nuova e misteriosa, nuova e misteriosa perché in sé non è più soltanto e unicamente un mezzo per significare qualcosa” . Egualmente svincolati da una semplice rispondenza di senso ai termini lessicali della propria definizione sono i rilievi in terracotta che Elena titola Deserti; visioni dall’alto, ma a volo radente, in cui il cedevole paesaggio della Cirenaica o Tripolitania non si distingue più dall’idea emergente della forma umana e nei quali – su tutto – domina il valore della continuità: in superficie, come pure in un ipotetico addentrarsi dello sguardo nelle stratificazioni del piano, si respira un’omogeneità fra pulsione fisica e struttura mentale dell’immagine. Il bimbo non ancora nato di Kubrick, sulle note di Richard Strauss, osservava dall’alto dello spazio siderale un globo azzurro nel quale si poteva intravedere la promessa di un futuro convergere di razionalità e contemplazione, progresso scientifico e verità rivelata, per illuminazione del Principio. Il piccolo Uomo della sabbia di Elena non si capisce da che lato del regno di Cronos venga. Forse in lui percepiamo la vivente premessa ad ogni schema consolidato dell’immagine di natura, e la nostra attenzione al trapelare della sua forma nel tendersi alterno del suolo non è altro che un “ascoltare il passato con gli occhi”, come direbbe Roger Chartier attingendo al miglior concettismo della poesia spagnola del Seicento. Qualunque sia il percorso nel tempo che possiamo immaginare per le sue opere, immediatamente percepibile è come Elena non prescinda mai da un contatto fisico con le cose e le situazioni. Corpo, natura, spiritualità sono vissuti fisicamente nel proprio divenire, quale che sia l’approccio tecnico alla loro manifestazione nella scultura. Questo spiega la presenza di archetipi orientali e, insieme, l’assenza di riferimenti culturali alla misura classica; l’unico accenno alla cultura dell’antichità greca si consuma attraverso il prestito di due maschere teatrali – una tragica e l’altra da commedia – al corpo di un essere “bifronte” la cui sostanza è vissuta in termini di sangue e con cadenze perlomeno ellenistiche, se non addirittura postmoderne. E non manca, insieme al pathos, l’ironia. All’origine di una serie di lavori c’è l’innesto su di un torso flessuoso di tubuli in plastica che sembrano dover fornire ossigeno o azoto a un improbabile androide danzante: un vero e proprio Capriccio, nel senso del divertissement artistico, non fine a se stesso ma capace di innescare differenti e più complesse riflessioni formali… Come il passo di tango in una Ines che, con il realismo anche pittorico della sua figura, suona oggi strana, consapevolmente spinta al limite della dimensione attuale del kitsch, come l’arciere del frontone di Egina quando ne vediamo ricostruita l’attillata veste policroma. Bisogna raggiungere il culmine della tensione realistica per avere chiara percezione di come la situazione tratteggiata in apertura abbia una propria naturale controparte, in cui l’impronta conosce un inverso ordine di lettura: ora è il terreno che si intrude con le sue astrazioni geomorfe nelle pieghe delle sculture in ceramica, condotte a un grado di puntualità descrittiva che si fa quasi provocatorio, nella violenza esplicita del colore; e ogni elemento matrice lascia spazio alla forma impressa di una vita, stampata nel cavo o nella plasticità delle sue emozioni. Non crea differenza sostanziale, alla fine, che il dinamismo della materia si inarchi nella linea dorsale di un’alata silhouette femminile o nella sintesi astratta di un’onda dagli orli sfrangiati: lo sguardo rimane sensualmente intento alla restituzione del momento contemplativo, carpito durante l’evoluzione della frase musicale, fissato nel frusciante crepitio d’un lembo di tessuto che inguaina fibre lunghe di danzatrice, o tradotto nel flettersi come prolungamento di vertebre e tendini di un ideale arciere o di un’angelica, nera polena, sfrontata nel suo protendersi su immaginati flutti. Non si dà quindi effettivo stacco fra lo scavo drammatico delle linee in certe terrecotte – unghiate feroci come il solco di un’aratura – e la propensione, nelle opere in pietra, a interrogarsi ogni volta sul grado di finitura e finitezza, ovvero di decoro e di articolazione esplicativa; con attenzione privilegiata, allora, per uno sviluppo sul piano che non preclude la profondità, ma suggerisce una visione di superficie-limite, ovvero di raccordo, fra dimensioni a un passo dal conoscersi. Fulvio dall'Agnese
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